All’improvviso

E poi d’un tratto l’era della disoccupazione è finita. Meno male. Una gran fortuna, non c’è nemmeno bisogno di dirlo. Io però di lavoro ne volevo uno, non tre, per cui mi destabilizza un pochino il fatto che, all’improvviso, mi ritrovo a dovermi barcamenare tra un liceo scientifico di periferia, un gruppo di quindicenni stranieri – al momento per lo più muti – che spera di imparare l’italiano e una classe di italiani la cui prof. di lettere è andata in maternità. La gestione contemporanea di casa-famiglia-figli-lavoro comincia ad assomigliare ad un esercizio acrobatico sotto il quale nessuno ha messo una rete di protezione e l’equilibrio, sempre troppo precario, della mia testa viene continuamente messo a dura prova. Per fortuna in tutta questa situazione è venuta in mia aiuto una baby sitter automunita, che, quando la batteria della sua macchina decide di funzionare, va a prendere i miei figli a scuola e li porta a giocare al parco. Perché io, mentre Bibi e Apo escono dalla loro classe, sto insieme a cinque filippini e ad una peruviana a cantare Azzurro il pomeriggio è troppo azzurro e lungo per me, a giocare a bingo con gli infiniti dei verbi e a fingere improbabili scenette che si svolgono a scuola, al supermercato o in una palestra. Loro, i filippini, sorridono in silenzio e mi danno sempre ragione. Sono dolci ed educati ma cosa si affolla nel loro cervello in questo momento a me non è dato sapere. E meno male che l’altro giorno gli ho fatto ascoltare “La solitudine” conquistandomi, una volta per tutte, la loro stima: le ragazze alla fine della lezione si cimentavano in acuti spaventosi e per la prima volta chiedevano il significato delle parole, mentre l’unico maschio, il metallaro con lo smalto nero sulle unghie, si è commosso e, con le guance rigate di lacrime, mi ha detto che gli manca la fidanzata rimasta nelle Filippine. A saperlo gliela facevo conoscere prima Laura Pausini!

La mia casa è quasi sempre un disastro, perché le lunghe e calme mattinate casalinghe sono ormai solo un pallido ricordo: ora di mattina sto a scuola ad interrogare degli agitati ragazzotti – pieni di energie e di sarcasmo – sulla quarta declinazione e sui significati della perifrastica attiva, e mi tocca anche spiegargli per filo e per segno quello che è successo negli ultimi decenni del I secolo avanti Cristo. Come se non bastasse la direttrice della scuola privata dove insegno ai filippini mi ha chiesto di sostituire una professoressa di lettere che sta per partorire. E io ovviamente ho detto di si. Perché se i lavori che fai sono tutti precari, provvisori e dotati di una data di scadenza, non puoi mai dire di no a niente e a nessuno.

Chi mi conosce sa che questi per me sono sogni che si realizzano. Chi mi conosce meglio sa anche che le mie insicurezze e il mio frequente senso di inadeguatezza a volte possono giocare brutti scherzi. All’inizio tutto è stato nuovamente avvolto dal panico e dall’agitazione; le notti insonni passate a ripassare la grammatica latina e la tarda età repubblicana non hanno aiutato a tenere alto lo spirito, per cui dopo qualche giorno, lo ammetto, la tentazione di scappare, mollare tutto e tornare alle gioie idilliache della disoccupazione è stata fortissima. Poi però ci ho preso gusto, oppure mi sono ambientata, o forse ho capito che il lavoro che ho sempre desiderato fare è in effetti proprio quello che mi riesce meglio.

Però, ad essere sinceri, c’è anche un altro fatto che mi ha fatto cambiare idea. Li ho guardati bene questi quindicenni, i romani, i filippini e i peruviani e ho visto qualcosa che mi ha molto interessato. Ho capito che sono spavaldi, diretti, sinceri, a volte irrispettosi. Sono indifesi, perché una parte di loro è ancora bambina mentre l’altra preme per diventare grande. Sono divisi, insicuri, troppo emotivi. Sono molto curiosi, e nei rari momenti in cui riesci ad interessarli veramente cala il silenzio nella classe e loro ascoltano ogni virgola e ogni sfumatura di quello che dici; con quegli occhi ti osservano, scrutano con attenzione tutto quello che fai. Bisogna stare attenti perché la fiducia che ripongono in te è disarmante e la responsabilità che ti consegnano pesa addosso come un macigno. Eppure quando torno a casa, ogni giorno, ripenso a quegli occhi che non hanno paura di sostenere il mio sguardo: mi sfidano, mi giudicano, mi apprezzano, mi odiano. In queste scintille ci vedo qualcosa: una vitalità, un candore, un tormento, una miriade di storie possibili che non so proprio come potrebbero andare a finire. Storie che varrebbe la pena stare ad ascoltare, storie alle quali vale la pena, nonostante tutto, partecipare.

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